Devozione

La via Appia

"Vi dico che se taceranno costoro, si metteranno a gridare le pietre" (Lc 19,40). Le parole di Gesù pronunciate durante il suo ingresso in Gerusalemme tornano prepotentemente alla mente del pellegrino che percorre la via Appia. Di fronte alla secolarizzazione dei nostri tempi, in un contesto di diffuso rinnegamento della fede, è come se Gesù tornasse a ripetere le parole di sfida rivolte ai farisei: «Se anche i miei discepoli dovessero tacere, per me daranno testimonianza le pietre». Il pellegrinaggio cristiano, prima ancora che una riflessione su se stessi, sulla propria esistenza e sulla propria moralità, è un muoversi, un andare, un uscire fuori diretti verso una meta. Il pellegrinaggio è un camminare verso un luogo che indica un fatto, un avvenimento.

La via Appia, l’antica Regina Viarum dei romani, è proprio uno di quei luoghi nel quale in maniera sorprendente e commovente questi fatti balzano all’attenzione anche dell’uomo più distratto. Lungo la strada sono ancora evidenti i resti archeologici e i luoghi di devozione che richiamano immediatamente alla mente la predicazione degli apostoli Pietro e Paolo e la testimonianza dei martiri.

È come se parlassero le pietre. Il cristianesimo entrò a Roma attraverso la via Appia. San Paolo, prigioniero per la fede, percorse la stessa strada, ma in senso inverso,oltre duemila anni fa. "Così arrivammo a Roma. Di là i fratelli, che avevano sentito delle nostre peripezie, ci vennero incontro fino al Foro Appio e alle Tre Taverne. Quando li vide, Paolo ringraziò Dio e prese coraggio" (At, 28,14-15). Gli Atti degli Apostoli descrivono così il primo incontro dell’apostolo delle genti con la piccola comunità romana. I cristiani di Roma, eccetto alcuni, non conoscevano Paolo di persona, ma da lui avevano ricevuto anni prima una lunga lettera nella quale egli aveva mostrato il suo affetto per loro: «La fama della vostra obbedienza è giunta a tutti» (Rm 16,19). Gli erano andati perciò incontro lungo la via Appia per una cinquantina di chilometri, fino a una stazione di ristoro per i viaggiatori chiamata Tres Tabernae (località nei pressi della cittadina di Cisterna). Qualcuno si spinse anche oltre, per un’altra dozzina di chilometri, arrivando al Forum Appii, non lontano da Terracina.

Anche Pietro percorse lo stesso polveroso selciato della grande strada consolare che dall’Oriente conduceva i sudditi dell’impero, e quindi anche i cristiani, fino alle mura della città sovrana. Poco prima di imboccare la via Ardeatina i pellegrini del Divino Amore passano davanti alla chiesetta di Santa Maria in Palmis o del Passo, meglio conosciuta con il nome di "Quo vadis". Il tempio fu costruito, come vuole un’antica tradizione, a ricordo dell’apparizione di Gesù a Pietro in fuga dalla città. Non appena vide Cristo che gli veniva incontro, l’apostolo domandò: "Domine, quo vadis?", "Signore, dove vai?". E Gesù rispose: "Vengo a Roma ad essere crocifisso un’altra volta". Udite quelle parole, Pietro comprese che si riferivano al suo martirio, come cioè in lui avrebbe sofferto il Signore. Così Pietro si incamminò di nuovo verso Roma, dove affrontò il supplizio sul colle Vaticano.

È probabile che a Pietro, proprio percorrendo la via Appia per consegnarsi ai carnefici, siano tornate in mente, finalmente chiare, le parole che Gesù gli aveva detto più di trent’anni prima, dopo la sua risurrezione: "In verità, in verità ti dico: quand’eri giovane, ti annodavi da te la cintura e andavi dove volevi. Ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti annoderà la cintura e ti condurrà dove tu non vuoi" (Gv 21,18).

L’episodio del "Quo vadis?" – che nel 1895 ha ispirato il celebre omonimo romanzo del polacco Henryk Sienkiewicz e dal quale sono state successivamente tratte diverse edizioni cinematografiche – era conosciuto fin dai primi secoli e già Sant’Ambrogio lo riteneva vero. Nella chiesetta è infatti conservata una pietra (si tratta di una copia, l’originale è custodito nella vicina basilica di San Sebastiano) che restò segnata dall’impronta dei piedi di Gesù.



Le Catacombe

"Pietro e Paolo pregate per me e per chi legge". La mano di un anonimo pellegrino ha scolpito, tra la metà del III e l’inizio del IV secolo, questa breve e commovente preghiera, sul muro della cosiddetta "memoria apostolica" nelle catacombe di San Sebastiano. Superata la chiesetta del "Quo vadis" i pellegrini del Divino Amore, prendono la via Ardeatina costeggiando le catacombe di San Callisto e quelle di San Sebastiano. Sono i luoghi che accolgono le tombe di tanti santi martiri vittime delle persecuzioni dei primi secoli. I luoghi nei quali, come ha detto Papa Paolo VI il 12 settembre del 1965 visitando San Callisto, si può "intravedere l’umile splendore della primitiva testimonianza cristiana".

Il pensiero del pellegrino si volge a quegli anni difficili e tremendi per la comunità romana. Il cristianesimo giunse e si stabilì nella capitale dell’Impero, sin dal primo secolo, attraverso la dolorosa esperienza del martirio e della persecuzione.

Di fronte all’odio e alla violenza del potere mondano i cristiani trovavano conforto e rinnovato vigore radunandosi per pregare sulle tombe dei martiri. Tornano in mente le parole di san Bernardo di Chiaravalle: "La memoria dei Santi suscita in noi il desiderio di godere della loro compagnia così dolce... Perché la speranza di una felicità incomparabile diventi realtà ci è necessario il loro soccorso".

È fuor di dubbio, ad esempio, che durante la terribile persecuzione voluta dall’imperatore Valeriano (258) i cristiani si ritrovarono a San Sebastiano per venerare gli apostoli e martiri Pietro e Paolo. Non si può affermare con certezza se i loro corpi siano stati appositamente traslati dal Vaticano e dall’Ostiense, ma i tanti graffiti, tutti accorate richieste di intercessione, dimostrano che San Sebastiano fu un centro di culto popolare verso i prìncipi degli apostoli, venerati come se lì fossero presenti, con le stesse manifestazioni di fede che si usavano presso le tombe dei martiri.

Il pellegrinaggio dei cristiani a Roma inizia così. La prima comunità cristiana della città, che aveva accolto la predicazione degli apostoli Pietro e Paolo ed era stata testimone del loro martirio, custodì gelosamente e venerò le loro gloriose reliquie. Ben presto però l’eco di questa straordinaria testimonianza a Cristo si diffuse. Tanto che già nel quarto secolo, appena dopo la fine delle persecuzioni, cioè dopo il cosiddetto editto di Costantino (313), San Massimo da Torino collocava Roma tra i più eminenti centri del cristianesimo: "Cristo ha illuminato l’Oriente con la sua Passione, affinché l’onore dell’Occidente non fosse meno grande, lo ha fatto illuminare, in sua vece, dal sangue degli Apostoli. Dove sono i prìncipi pagani siano anche i prìncipi della Chiesa".



Come una nuova "Porta Santa"

Sin dai primi secoli le comunità cristiane sparse nel mondo guardarono dunque a Roma come al fondamento della fede. L’inno dei vespri nella solennità dei Santi Pietro e Paolo così recita: "O Roma felice, che sei imporporata dal sangue prezioso di così grandi prìncipi! Ti innalzi sopra ogni bellezza del mondo, non per tua lode, ma per i meriti dei santi che uccidesti con spade insanguinate".

La città è percepita dai pellegrini come un grande sacrario, un luogo in cui brilla la luce della carità e della testimonianza cristiana. Una centralità che la presenza del papato e, a partire dal 1300, l’istituzione dell’Anno Santo e la pratica delle indulgenze esalteranno e valorizzeranno. Si comprende allora perché nella Chiesa che è a Roma, che tutte le altre Chiese "presiede nella carità", ogni pratica devozionale, ogni pellegrinaggio, ogni serio approfondimento della fede non possa prescindere dal culto dei martiri, da un ritorno alle origini. Non per un nostalgico rifugio nel passato o per una escursione trionfalistica sulle vestigia dei propri avi, ma perché la testimonianza dei primi uomini che si imbatterono nell’avvenimento cristiano sia di reale conforto alla fede degli uomini di oggi.

Il Divino Amore – che Giovanni Paolo II ha definito "il nuovo Santuario mariano di Roma accanto a quello più antico di Santa Maria Maggiore" – non sfugge a questa dinamica. Il percorso compiuto ormai tradizionalmente dai pellegrini diretti al Divino Amore offre numerosi spunti di riflessione e di meditazione proprio sulla primitiva comunità cristiana.

Il Santuario di Castel di Leva è del resto intimamente legato alla memoria dei prìncipi degli apostoli. Il primo miracolo attribuito all’intercessione della Madonna del Divino Amore, quello che nel 1740 diede l’avvio alla devozione, fu compiuto infatti proprio in favore di un pellegrino che si stava recando nell’Urbe per pregare sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo.

Non deve stupire perciò il fatto che il Comitato organizzatore per il Giubileo del 2000 abbia affiancato il Santuario di Castel di Leva ai tradizionali luoghi che da secoli accolgono i pellegrini che giungono a Roma per le celebrazioni dell’Anno Santo e quindi le quattro basiliche patriarcali (San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le Mura) e le catacombe. Il Santuario del Divino Amore, insomma, come una nuova "Porta Santa" attraverso la quale far passare il fiume della grazia della riconciliazione, della conversione e della santificazione del popolo cristiano. "La Porta Santa del Giubileo del 2000 – ha scritto Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente – dovrà essere simbolicamente più grande delle precedenti, perché l’umanità giunta a questo traguardo, si lascia alle spalle non soltanto un secolo, ma un millennio".

La decisione del Comitato organizzatore del Giubileo, innegabilmente, sarà stata anche dettata dalla necessità di trovare un luogo che presentasse maggiori disponibilità di spazio e di movimento per l’accoglienza dei pellegrini (si pensi soltanto alla difficoltà rappresentata dal traffico nelle moderne metropoli), per cui è stato individuato il Santuario di Castel di Leva come luogo dove ricevere il dono dell’Indulgenza plenaria del Giubileo e per ospitare il XX Congresso Mariano Mariologico Internazionale. Tale scelta, però, sicuramente non ha potuto non tenere in seria considerazione anche la storia e la tradizione legate al Divino Amore, "nuovo Santuario mariano di Roma". "Nella storia della Chiesa – sottolinea ancora Giovanni Paolo II – il "vecchio" e il "nuovo" sono sempre profondamente intrecciati tra loro. Il "nuovo" cresce dal "vecchio", il "vecchio" trova nel "nuovo" una sua più piena espressione".



Il sentiero del pellegrino

L La via Ardeatina, che collega la città di Roma con il Santuario, è rimasta nel corso degli anni con le dimensioni del tempo degli antichi romani, e sostiene un traffico intenso, con mezzi pesanti che dal Grande Raccordo Anulare sono diretti verso la zona industriale di Pavona e Pomezia. Per la pericolosità della via Ardeatina sta quasi scomparendo l’antica tradizione di recarsi in pellegrinaggio a piedi al Divino Amore

Si compie ancora, ma nelle ore notturne, quando c’è poco traffico, il tradizionale pellegrinaggio che ogni sabato, da Pasqua a fine ottobre, parte alle ore 24 da piazza di Porta Capena e raggiunge il Santuario alle 5 del mattino della domenica.

È nata così la proposta di realizzare un sentiero del pellegrino che, valorizzando la via Appia Antica, porti i pellegrini attraverso i campi fino al Santuario, per evitare i pericoli della via Ardeatina.

La proposta è stata poi sottoposta, già dal settembre 1995, all’attenzione delle autorità comunali, mediante una lettera che il Rettore del Santuario ha inviato al sindaco di Roma. L’Amministrazione Comunale ne ha approvato il progetto durante l’anno del Grande Giubileo del 2000.

(Fabrizio Contessa-Costantino Ruggeri,Madonna del Divino Amore, Ed. San Paolo)