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«Non conosco città grande, la quale non abbia vicino o lontano un
Santuario: Santuario di Roma è la Madonna del Divino Amore». Con queste parole nette e definitive, nell’ormai lontano 1945, un grande innamorato del Divino Amore, Don Giuseppe De Luca, riaffermava il carattere eminentemente romano del Santuario. «Divino Amore» è un nome che ancora oggi a Roma si sente ripetere spesso, e non sempre in maniera conveniente. Ma si tratta di un destino comune a tutto ciò che realmente fa parte della vita quotidiana, che è carne e sangue, gioia e dolore, fatica e trepidazione. E poche cose, come il Divino Amore, appartengono al popolo romano, che, pur avendo in città a disposizione più di mille chiese, quando ha da confidare una pena, chiedere una grazia, o semplicemente far benedire l’automobile nuova, si rivolge alla Madonna del Divino Amore. Nobile e plebeo, come la città alla quale è strettamente legato, il Santuario del Divino Amore è il Santuario di tutti. Ma in particolare dei più semplici, degli abitanti delle grandi e desolate periferie della capitale e delle vivaci cittadine dei Castelli Romani. «Il popolo, si dirà, il popolo non capisce cose tanto sublimi», affermava Don Giuseppe De Luca in aperta polemica con quanti, clero e intellettuali, allora storcevano il naso di fronte alla fede semplice ed essenziale del popolo. «Ma le cose autenticamente sublimi – proseguiva Don De Luca – sono le più piane, le più facili, le più quotidiane, e il popolo dei fedeli potrà non saperle formulare, potrà non afferrare i concetti e nemmeno le nozioni, ma le capisce talmente che le vive, se è un popolo buono. Il popolo va infatti al Divino Amore, e chi non ci va sdegna d’essere popolo e storce il muso».
Da sempre quello che accorre al Divino Amore è infatti il popolo festante e «caciarone» delle processioni, dei colori sgargianti delle feste paesane, dei sapori forti delle scampagnate «fuori porta». Con facilità, è vero, mescola sacro e profano, presta poca attenzione ai progetti e ai programmi pastorali della Chiesa locale, ma è anche il popolo che, anche oggi in un contesto di profonda secolarizzazione, si segna con la croce davanti all’immagine della Madonna, ascolta con composta serietà, quasi con venerazione, le parole del prete dall’altare, frequenta i sacramenti, obbedisce ai comandamenti, riconosce la Chiesa come sua Madre. Come tutti, questo popolo, potrà tradire, allontanarsi, ma sempre, come il Figliol Prodigo, per infine ritornare, accendere una candela, battersi il petto e recitare un’Ave Maria. È un popolo che sta ai dati essenziali del catechismo, e che è istintivamente allergico ad ogni supplemento intellettualistico della fede. «Il popolo non sa – affermava ancora don Giuseppe De Luca – ma questo non vuol dire che il popolo sia fuori della vita cristiana. La vita cristiana non è cultura, nemmeno è cultura cattolica. La vita cristiana essenzialmente è conoscere Dio e amarlo. Chi sappia tutto questo, anche se non lo sa altrimenti che adempiendolo, sa tutto». Una vecchia torre abbandonata Perché un Santuario in località Castel di Leva, in un posto così fuori mano, lontano dal centro abitato, là tra la via Ardeatina e la via Appia Antica? Pur essendo così congeniale alla propria spiritualità, gli stessi romani poco sanno dell’origine del Santuario e della devozione cui l’edificio è votato. La storia del Santuario è davvero inconsueta. Non è legata ad una apparizione della Madonna, ma ad una antica immagine della Vergine in trono con in braccio Gesù Bambino, sovrastati entrambi dalla colomba simbolo dello Spirito Santo (di qui il titolo di Madonna del Divino Amore). Il dipinto era posto su una delle torri di cinta di un antico castello, il castello dei Leoni (da cui la degenerazione in Castel di Leva), che nel 1740, anno del primo miracolo, appariva già diroccato, forse distrutto da un terremoto.
Fin dal 1081 (quando per la prima volta se ne trova menzione in una bolla di Gregorio VII) quella terra era appartenuta all’Abbazia di San Paolo. Più in là nel tempo la proprietà passò alla chiesa di Santa Sabina e, quindi, nel 1295, alla famiglia dei Savelli. Il castello fu costruito proprio in quegli anni. Successivamente, probabilmente per mano di un autore della scuola romana di Pietro Cavallini, fu eseguito il dipinto della Madonna, che in attesa di compiere il primo miracolo – come sottolineano i versi di un poeta dialettale – «stette lì, sola soletta, pe’ tre secoli bòni, allo scoperto». In quell’epoca, infatti, un po’ tutta la campagna romana, ma in particolare quel tratto, era arida e abbandonata. Solo d’inverno vi si spingeva qualche pastore per far pascolare il gregge di pecore. In tanta desolazione, l’unico segno di vita e di conforto era appunto il dipinto della Madonna, ai piedi della quale la sera i pastori si riunivano per recitare il rosario. Nel 1740, in un pomeriggio di primavera, accadde il miracolo. E l’immagine della Madonna dipinta su quella torre diroccata divenne presto la meta di pellegrini, «sempre più devoti e numerosi, che ricevevano numerose grazie». Una casa per la Madonna
L’eco di quanto era accaduto e, soprattutto, il concorso di pellegrini, furono tanto vasti da spingere ben presto la gerarchia ecclesiastica a volerci vedere chiaro. Il Cardinale Vicario, il carmelitano scalzo Giovanni Antonio Guadagni, si recò in visita a Castel di Leva. Si decise così di trovare subito un tetto alla Madonna. L’immagine fu staccata dall’antica torre e trasportata nella chiesetta di Santa Maria ad Magos, a due chilometri da Castel di Leva, in località Falcognana. La decisione non fu indolore. E non solo perché la scarsa perizia con cui, nel 1742, fu eseguito il distacco dell’affresco dal muro ha portato a danni non più riparabili, e anzi aggravati da incauti e numerosi restauri successivi. Il trasferimento della miracolosa immagine scatenò, infatti, il finimondo tra il Capitolo di San Giovanni in Laterano, alla cui giurisdizione apparteneva la chiesetta di Falcognana, e il Conservatorio di Santa Caterina della Rota ai Funari, proprietario di Castel di Leva e quindi del dipinto. A dirimere il contenzioso dovette intervenire la Sacra Rota: con sentenza definitiva dell’8 marzo 1743 si decise per l’appartenenza dell’immagine al Conservatorio di Santa Caterina, precisando che le offerte dei pellegrini dovevano servire per la costruzione di una chiesa. In breve si pose mano ai lavori, per i quali si incaricò l’architetto campano Filippo Raguzzini. In poco meno di un anno la nuova chiesa, edificata sul luogo del miracolo, era pronta per ospitare l’immagine della Madonna. Il 19 aprile, lunedì di Pasqua 1745, si procedette al trasferimento. Le cronache del tempo annotano una gigantesca folla di romani e di abitanti dei Castelli, con tanto di gonfaloni e di confraternite, che fece da corona al carro che trasportò la prodigiosa effigie dalla chiesetta di Santa Maria ad Magos al Santuario appena eretto. Per l’occasione papa Benedetto XIV concesse ai partecipanti l’indulgenza plenaria, che potevano lucrare anche coloro che avessero visitato l’immagine in uno dei sette giorni seguenti quello del trasferimento. Durante l’Anno Santo del 1750, il 31 maggio, si procedette alla solenne dedicazione della chiesa e dell’altare maggiore al Divino Amore, che è poi il titolo che meglio di ogni altro spiega chi è Maria: una ragazza che accettò di diventare Madre del Salvatore perché ripiena dello Spirito Santo, cioè del Divino Amore. La celebrazione fu presieduta dal Vescovo di Padova, il Cardinale Carlo Rezzonico, che otto anni più tardi salirà al soglio pontificio, con il nome di Clemente XIII. Gli anni della decadenza
Il Santuario divenne rapidamente il centro di una fervente pietà popolare e quindi meta di numerosi pellegrinaggi. Era dunque necessario approntare l’assistenza spirituale a quanti arrivavano fino al Santuario di Castel di Leva per confessarsi e comunicarsi. Decine di ordini religiosi furono interpellati, ma nessuno se la sentì di affrontare un tale incarico in un posto così isolato ed esposto continuamente alle malefatte dei banditi. Di un certo rilievo dovette essere il furto avvenuto nel 1761, visto che in quella occasione si decise di portare in un luogo più sicuro tutti i doni e gli ex voto del Santuario. L’assistenza ai pellegrini fu così affidata dapprima a un sacerdote-custode (che dimorava a Castel di Leva soltanto nel periodo di Pentecoste quando si svolgevano i tradizionali pellegrinaggi) nominato dal Conservatorio di Santa Caterina e successivamente al Capitolo di San Giovanni, cui spettava la cura d’anime di quel tratto di agro romano. Il Santuario otterrà così il suo primo viceparroco, con l’obbligo della residenza, soltanto nel 1802. La vita del Santuario si svolgeva nei limiti, molto ristretti, delle possibilità dell’epoca. I fedeli si recavano al Divino Amore soltanto in occasione delle festività maggiori e dei grandi pellegrinaggi. A riportare l’attenzione sul Santuario furono, nel 1840, i festeggiamenti per il centenario del primo miracolo. Per l’occasione si restaurarono la chiesa e l’altare, si indorarono nuovamente gli stucchi, si crearono dei locali provvisori dove furono sistemati due altari e numerosi confessionali. Da Roma si portarono drappi, damaschi e altri arredi sacri. Si fece arrivare al Santuario anche una abbondante provvista d’acqua. La stessa via Ardeatina, strada lungo la quale sorge il Santuario, ridotta in un pessimo stato, venne sistemata. Furono costruiti ponti, allargati e spianati diversi passaggi. I festeggiamenti iniziati il 7 giugno 1840, domenica di Pentecoste, si protrassero per una settimana. Alle celebrazioni, narrano le cronache del tempo, partecipò anche il re Michele di Portogallo. Paradossalmente, però, i festeggiamenti del centenario segnarono per il Santuario anche l’inizio di un certo declino. I pellegrini continuavano ad accorrere, ma al fenomeno di autentica devozione popolare, ad un certo punto, se ne sovrappose un altro: quello delle cosiddette «madonnare». Si trattava di popolane romane, per lo più erbivendole e lavandaie, che festeggiavano la loro particolare festa annuale proprio nel lunedì di Pentecoste presso i vicini Castelli Romani. Siccome la festa della Madonna del Divino Amore avveniva il giorno di Pentecoste, esse avevano di rito una sosta davanti al Santuario, dove provocavano un gran baccano, per poi ripartire all’alba del giorno successivo. Tutto questo aveva finito per ingenerare un certo equivoco tra «madonnare», il cui spirito gaudente non testimoniava certo un senso di devozione, e Divino Amore. Tanto che lo stesso Gioacchino Belli in un sonetto del 1831, La devozzione der Divin’Amore, dice: «Dimenica di là Rinzo, Panzella,/ Io, Roscio e le tre fije der tintore/ Vòrzimo annà a fa ‘no sciàlo in carrettella/ A la Madonna der Divin Amore».
A questo tono di ridicolo, che durò per decenni, si aggiungeva poi il disagio per la presenza di venditori di cibi che si sistemarono stabilmente al Divino Amore: le bancarelle di porchetta, di pecorino, di fave e di vino vennero sistemate proprio a ridosso della chiesetta. Il pellegrinaggio al Santuario di Castel di Leva diventava l’occasione, quando non il sinonimo, di gita «fuori porta». Tale commistione tra sacro e profano, se suscitava qualche imbarazzo nei sacerdoti, non dovette, comunque, impensierire la Madonna, che, anche in quegli anni, continuò ad elargire grazie a quanti l’invocavano con fede. La «primavera» di Don Umberto Terenzi Il deserto è il luogo e il tempo della Provvidenza di Dio. Il deserto, dice la Scrittura, è un «luogo inospitale», dove non c’è «seme, fico, uva, melograno e non c’è acqua da bere» (Nm 20,5). Eppure è in questa terra arsa e bruciata dal sole che il Signore manifesta la sua Provvidenza, mostrandosi ancora più vicino ai figli che ama. «Esultino il deserto e la steppa, gioisca e fiorisca l’arida terra... Vedranno la gloria del Signore, lo splendore del Carmelo e del Saron» (Is 35,1-2). Nel «deserto» cui era ridotto il Santuario del Divino Amore la Provvidenza ha avuto il volto e il cuore di Don Umberto Terenzi. All’infaticabile opera di questo prete romano, del quale è stata introdotta la Causa diocesana di Beatificazione e Canonizzazione il 23 gennaio 2004, è legata, quasi
come una sorprendente fioritura, la rinascita del Santuario. Don Terenzi ne fu rettore e quindi parroco ininterrottamente dal 1931 al 1974, anno della sua morte. Quando Don Terenzi, neppure trentenne, per la prima volta arrivò a Castel di Leva, il Santuario era ridotto ad una decadenza estrema e vergognosa. La sua attività era limitata a soli due mesi l’anno, in pratica dal giorno di Pentecoste fino a luglio. Per il resto del tempo i locali del Santuario non raramente finivano per diventare anche stalle, rifugio di animali domestici e deposito di fieno. Ad un cronista del 1930 apparirà come «un villaggio abbandonato dopo un saccheggio». Luride capanne di legno, banchi d’osteria, cumuli di rifiuti, su per l’androne, presso la chiesa, fino sotto l’altare della Madonna. Al Santuario mancava anche l’acqua potabile e i venditori ambulanti a caro prezzo la vendevano – incerta di sapore e di provenienza – ai pellegrini. Ma i disegni della Provvidenza si realizzano malgrado, anzi, in un certo senso, proprio «attraverso» la povertà, i limiti e le debolezze degli uomini. È accaduto così anche per il Divino Amore. Il 22 giugno del 1930 i ladri «visitarono» il Santuario, spogliando la Madonna dei monili preziosi donati in ringraziamento dai fedeli. Proprio quel furto, sebbene rimasto impunito, ebbe però il merito di risvegliare l’attenzione per l’antico Santuario da troppo tempo lasciato in stato di abbandono. Appena informato del furto, il Cardinale Vicario inviò al Divino Amore un suo visitatore apostolico, Monsignor Migliorelli, il quale portò con sé un giovane sacerdote romano, Don Umberto Terenzi, viceparroco di Sant’Eusebio a piazza Vittorio. In seguito alla relazione di Monsignor Migliorelli si decise che un sacerdote dimorasse stabilmente al Divino Amore con il titolo di rettore. La scelta cadde proprio su Don Terenzi, il quale, inizialmente, accolse l’invito con una certa titubanza. Non se la sentiva proprio, il giovane sacerdote, di stare solo laggiù in quella che era una vera e propria topaia, circondato da venditori di paccottiglie ed esposto alle sortite di ladri e malintenzionati. «Era il luogo dei briganti – ricorderà Don Umberto molti anni dopo. – Sì, c’era la Madonna, faceva miracoli, ma la gente che stava intorno!?... Dio solo lo sa». A dare una mano a Don Terenzi furono due avvenimenti. Un miracolo, attribuito proprio all’intercessione della Madonna del Divino Amore, con il quale ebbe salva la vita in un incidente stradale. E l’incontro, del tutto casuale, con un suo amico sacerdote in fama di santità, Don Luigi Orione. Quel Don Orione, grande apostolo della carità e fondatore del Piccolo Cottolengo, che nel 1980 Giovanni Paolo II ha solennemente elevato agli onori degli altari dichiarandolo beato e nel 2004 santo.
La sorte del Santuario si decise nel breve arco di una giornata: il 14 aprile del 1931. È mattina quando il giovane Don Umberto si mette alla guida della sua automobile. Sta tornando a Roma dal Santuario per parlare con il Cardinale Vicario Francesco Marchetti Selvaggiani e dirgli senza mezzi termini: «Eminenza, ci vada lei al Divino Amore». Oppure: «Ci venga pure lei con me, ma non mi pianti così, senza un soldo, senza niente». Don Terenzi voleva rinunciare alla missione che gli era stata affidata. Da soli quindici giorni si era stabilito al Santuario di Castel di Leva e già due volte i banditi avevano tentato di ammazzarlo. La prima notte aveva dormito circondato dai topi. «Madonna mia che paura! – ricorderà. – Avevo messo il letto su quattro mattoni per stare un po’ più sollevato, non pensando che i sorci scavalcassero pure il letto». Nel Santuario non era rimasto più niente, i ladri si erano portati via tutto, «mancava anche il purificatoio per dire Messa». È con questi sentimenti che Don Umberto si mette alla guida della sua auto, pagata 2800 lire (una somma notevole per il tempo) e acquistata appositamente, a costo di pesanti debiti, per poter andare a fare il prete a Castel di Leva. Percorso appena un chilometro, svoltata la curva che chiude l’orizzonte al Santuario, l’auto però sbanda paurosamente, esce fuori strada, si capovolge. La scena è drammatica. L’automobile è ridotta ad un ammasso di ferro contorto. Don Umberto invece ne esce illeso, praticamente senza nemmeno un graffio. «È stata la Madonna a salvarmi la vita», afferma subito Don Umberto. Ma che fare nel frattempo? «Vado dal Cardinale Vicario a dire che ci vada lui con la sua macchina, perché io non ce l’avevo più ormai, o ritorno al Divino Amore?». Prima di prendere una decisione, Don Umberto prova a sentire il parere di qualche amico. Incontra Monsignor Pascucci, segretario del vicariato («Lo vedi che a momenti ci rimani? Vattene via, ritorna a Roma») e Don Pirro Scavizzi, suo antico padre spirituale ai tempi del seminario («Figlio mio, ti sei imbarcato in un’opera un po’ difficile. Di’ al Cardinale che là ci vogliono dei religiosi. Tu solo lì che ci vai a fare?»). Ma la storia della Chiesa, oltre che dai poveri peccatori, è fatta dai santi che provvidenzialmente lo Spirito del Signore non manca mai di suscitare per il conforto e il sostegno del suo popolo. Quando si è fatta ormai sera tarda, Don Umberto si reca infatti da Don Orione, che per combinazione era a Roma – non era quasi mai nella capitale – nella casa della sua congregazione alle Sette Sale. «Siete vivo sì? E voi vi state a domandare che cosa dovete fare. Domani mattina, subito, ritornate al Divino Amore. V’impongo che vi ritiriate al Divino Amore», dirà con la consueta schiettezza l’intrepido Don Orione. «E guai se ci pensate un’altra volta ad allontanarvi. Vi succederà sul serio il pericolo da cui la Madonna ha voluto liberarvi». Don Umberto obbedì: tornò al Santuario e mantenne l’incarico di parroco per oltre 40 anni, fino al giorno della sua morte, il 3 gennaio del 1974.
Al miracolo compiuto dalla Madonna e a quel gesto di ubbidienza si deve dunque la rinascita del Santuario. Che è rapida e impetuosa. Soltanto sette giorni più tardi, infatti, il 21 aprile 1931, Don Umberto riesce a far istituire il primo regolare servizio di collegamento automobilistico (tre corse d’inverno e cinque d’estate) tra Roma e il Santuario. Il 18 aprile del 1932 si risolve definitivamente la questione della proprietà del Santuario e del terreno adiacente che passa dal Conservatorio di Santa Caterina al Vicariato di Roma. L’8 dicembre successivo viene eretta la parrocchia del Divino Amore per la cura spirituale del vasto territorio circostante. L’11 febbraio del 1933 si inaugura anche una prima opera di carità, l’asilo infantile. Nel giro di pochi anni, insomma, il Santuario del Divino Amore si riconquista il posto d’onore nel cuore dei fedeli romani. Tanto che nel 1944, di fronte alla furia della guerra, lo stesso pontefice Pio XII suggerirà di supplicare la Madonna del Divino Amore per ottenere la salvezza della Città eterna. Anche attorno al Santuario, che riprende vivacità con il rinnovarsi della devozione popolare e dei pellegrinaggi, si crea un ambiente più umano. Vengono aperti un presidio sanitario, una stazione dei carabinieri, si inaugura perfino la stazione ferroviaria «Divino Amore» al 16° chilometro della linea Roma-Formia. In città, nel frattempo, nei quartieri di nuova costruzione vengono sistemate, agli angoli delle strade o sulle facciate dei palazzi, centinaia di edicole sacre con l’immagine della Madonna del Divino Amore. Il carisma sacerdotale di Don Umberto calamita l’attenzione di centinaia di giovani. Alcuni di questi decidono di diventare sacerdoti per mettersi a più diretto servizio dei pellegrini. Nascono così, con un proprio seminario, gli Oblati del Divino Amore che da allora custodiscono e animano il Santuario. Anche molte ragazze decidono di consacrarsi totalmente al Signore. Il 25 marzo del 1942 si riuniscono nella Congregazione delle Figlie della Madonna del Divino Amore. Ancora oggi le religiose sono impegnate nel servizio alle opere di carità nate all’ombra del
Santuario (scuola per l’infanzia, accoglienza e assistenza delle minori in difficoltà) e più recentemente in terra di missione (in Colombia nel 1971, in Brasile nel 1991, in Perù nel 1993, nelle Filippine nel 1998, in India nel 1999 e in Nicaragua nel 2000). La profezia di San Luigi Orione«Sulla tua tomba fioriranno le opere», aveva predetto un giorno San Luigi Orione a Don Umberto Terenzi. E oggi quelle parole profetiche si sono concretamente realizzate. Non solo perché il Divino Amore in così poco tempo è diventato un centro di pietà popolare la cui fama ha varcato di gran lunga i confini della capitale e della regione (già nel 1975 un settimanale non sospetto come L’Espresso stimava un afflusso annuo di due milioni di pellegrini). Ma, soprattutto, perché proprio in questi anni si è portato a compimento il voto formulato dai romani durante il secondo conflitto mondiale. «Vale di più una benedizione di un Santo sopra un’opera di Dio, che tutti i mezzi umani a nostra disposizione», amava ripetere Don Terenzi. E la benedizione di San Luigi Orione sta portando i suoi frutti. Nei giorni drammatici della primavera del 1944 i romani supplicarono la Vergine del Divino Amore perché la città fosse risparmiata dalla devastazione della guerra. Da parte loro, i fedeli si impegnavano a ricondurre la propria vita a cristiana austerità di costumi e a realizzare a Castel di Leva un’opera di religione e di carità. Finita la guerra, e superata la fase difficile e transitoria della ricostruzione, i romani si diedero da fare per assolvere il voto. Don Terenzi tentò in mille modi di provvedere alla costruzione di un nuovo tempio, più ampio e solenne, con il quale onorare la Madonna del Divino Amore «Salvatrice dell’Urbe». Alla fine degli anni Cinquanta avviò anche la costruzione della Casa del Pellegrino, con la speranza di poter realizzare anche il nuovo Santuario. Ma le difficoltà burocratiche e la scarsità dei finanziamenti gli impedirono sempre di realizzare quest’opera. Oggi, invece, ad oltre trent’anni dalla sua morte, il voto solenne dei romani è stato realizzato. Il 19 febbraio 1991 venne firmata la concessione edilizia per la costruzione del nuovo Santuario. L’8 gennaio del 1996 il Cardinale Vicario Camillo Ruini ha posto la prima pietra di quello che, con l’avvento dell’anno giubilare del 2000, è diventato il nuovo Santuario. La struttura, in grado di accogliere oltre 1500 pellegrini, è stata realizzata ai piedi della collina, fuori dalle antiche mura, senza violare l’incanto della campagna romana e il complesso monumentale settecentesco. Contestualmente è in via di completamento la realizzazione di un’opera di carità, la «Casa per gli anziani in solitudine», edificata nello stesso luogo dove precedentemente c’era il vecchio Seminario per la formazione dei futuri Sacerdoti Oblati. Inoltre nel 2004 è stato completato il Polo educativo del <<Centro della gioia>>, che si affianca al Polo sanitario già attivo. Ulteriori strutture, sorte per l’accoglienza, sono la <<Casa Don Umberto Terenzi>>, la <<Casa Madre Elena>> e il <<Casale San Benedetto>>. «I voti sono delle promesse forti, e i romani hanno mantenuto la promessa fatta alla Madonna tanti anni fa», commenta l’attuale Rettore del Santuario, Don Pasquale Silla. C’è poi un altro aspetto, forse ancora più importante, della profezia di San Luigi Orione. È il riconoscimento accordato dalla suprema autorità della Chiesa all’opera di Don Umberto Terenzi. Per la prima volta un Papa è giunto fino al Divino Amore. Anzi, Giovanni Paolo II è venuto in pellegrinaggio a Castel di Leva ben tre volte: pochi mesi dopo la sua elezione, il 1° maggio 1979, per l’apertura dell’Anno Mariano, il 7 giugno del 1987, e per la Dedicazione del Nuovo Santuario, il 4 luglio 1999. È stato un po’ come porre il sigillo della benevolenza divina all’opera instancabile di questo sacerdote romano, Don Umberto Terenzi, che molti incominciano a guardare come modello di vita cristiana. Il 29 febbraio 1992 il Cardinale Vicario Camillo Ruini ha dichiarato Servo di Dio Don Umberto Terenzi; il 23 gennaio 2004 ne ha aperto ufficialmente la Causa di Beatificazione e Canonizzazione nella Sala della Conciliazione del palazzo Lateranense.«Sulla tua tomba – gli aveva predetto San Luigi Orione – fioriranno le opere». |