Parte prima   -    LA STORIA

    

NEL 1740 A  CASTEL DI LEVA

 

 

Storia del primo miracolo 

È un giorno di primavera del 1740. Un viandante, probabilmente un pellegrino diretto a San Pietro, si smarrisce per quegli squallidi e deserti sentieri di campagna nei pressi di Castel di Leva, una dozzina di chilometri a sud dell’Urbe. Nell’aria si avverte intenso l’odore della camomilla e del finocchio selvatico. Ma a quel tempo l’agro romano non doveva apparire particolarmente attraente. Tanto da fare una pessima impressione, sul finire di quello stesso secolo, anche al celebre letterato Vittorio Alfieri: «...vuota, insalubre region che Stato ti vai nomando, Aridi campi incolti squallidi oppressi estenuanti volti». E il poeta dialettale Gioacchino Belli, qualche anno più tardi, così gli avrebbe fatto eco: «...Fà dieci mija e nun vedè nà fronna! Imbatte ammalappena in quarche scojo! Dappertutto un silenzio come n’ojo».

Si trattava di vaste estensioni incolte, punteggiate di qualche antico rudere, aride d’estate e buone solo per il pascolo delle pecore d’inverno. I pastori e i contadini, che vi passavano alcuni giorni per la raccolta del fieno, evitavano di abitarvi stabilmente anche a causa della malaria.

      Smarrirsi per quelle terre, pertanto, non doveva essere proprio così piacevole. Allo stesso modo affrontare un pellegrinaggio per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro non doveva precisamente assomigliare a quella che oggi noi siamo abituati a chiamare una scampagnata. Alla fatica del cammino e all’asprezza delle intemperie cui si era esposti, si aggiungeva il rischio di cadere vittima in qualche imboscata tesa da briganti e banditi.

Avendo però scorto alcuni casali e un castello diroccato in cima ad una collina, il viandante vi si dirige di buon passo nella speranza di ottenere qualche informazione utile per rimettersi sulla giusta strada.

Ma proprio mentre sta per fare ingresso nel castello viene assalito da una muta di cani rabbiosi. Le belve inferocite lo circondano e sembrano non offrirgli via di scampo. Impaurito, anzi letteralmente terrorizzato, il poveretto alza lo sguardo e si accorge che sulla torre, c’è un’immagine sacra. È la Vergine con il Bambino, sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo, che è il Divino Amore. Come un naufrago che si aggrappa alla sua scialuppa, con tutta la forza di cui è capace, urla: «Madonna mia, grazia!».

È un attimo. Le bestie, che ormai gli sono addosso, di colpo si fermano. Sembra quasi che obbediscano mansuete ad un ordine misterioso.

Al richiamo di quell’urlo disperato i pastori che sono nei pressi accorrono e, dopo avere ascoltato quell’incredibile racconto, rimettono il pellegrino sulla strada per Roma. Di quell’uomo non si saprà mai il nome. Sappiamo con certezza, invece, che non stette zitto, ma raccontò per filo e per segno tutto quello che gli era accaduto a chiunque incontrasse o dovunque andasse. Tanto che quel luogo, Castel di Leva, come riportano le cronache del tempo, divenne assai famoso: «Non si distingueva più il giorno dalla notte e continuamente era un accorrere di pellegrini sempre più devoti e numerosi, che ricevevano numerose grazie».

  

Il significato dei miracoli

Nella sua straordinaria semplicità, la storia della Madonna del Divino Amore si può riassumere davvero con poche parole. Il suo sorgere non è legato, come accade per altri importanti e più noti luoghi di devozione, a speciali apparizioni della Madre del Redentore.

L’origine della Madonna del Divino Amore è legata, invece, esclusivamente al «miracolo». Il Santuario romano si presenta all’uomo della strada con un approccio più semplice, ancora più accessibile. Non ci sono messaggi da conoscere, simboli da decifrare, nozioni da imparare. C’è il miracolo nudo e crudo. C’è un fatto. C’è un avvenimento straordinario. C’è Dio Padre, il Mistero buono che ha creato e continuamente crea l’universo, che si interessa alle miserie e ai bisogni, anche materiali, delle sue creature.

Il miracolo per la Chiesa costituisce come la «prova» delle verità di fede. Non a caso, per poter proclamare una persona santa, o anche solo beata, oltre alla pratica delle virtù cristiane in grado eroico è richiesto il riconoscimento dell’autenticità di almeno un miracolo. Non potrebbe essere altrimenti. L’intera vita terrena di Gesù è inseparabilmente legata ai miracoli, a questi segni sensibili e straordinari, al di sopra di tutte le leggi e le forze della natura. Si pensi solo al «miracolo» della sua incarnazione nel seno verginale di Maria; o al prodigio operato trasformando l’acqua in vino alla nozze di Cana, che ne segnò l’iniziò della missione pubblica.

Il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica ribadisce pertanto giustamente che «i miracoli di Cristo e dei santi sono segni certissimi della divina Rivelazione», sono «motivi di credibilità» e mostrano che «l’assenso della fede non è affatto un cieco moto dello spirito». Inoltre, insegna il Catechismo, i miracoli sono segni «adatti ad ogni intelligenza» (CCC 156). Con qualsiasi grado d’istruzione, dall’analfabeta al premio Nobel, i miracoli sono comprensibili da tutti. Così come possono essere avvertiti nel loro significato e suscitare la conversione del cuore prescindendo dall’appartenenza ad un determinato ceto sociale, dal povero come dal ricco; o perfino (sommo scandalo per gli ipocriti e i farisei di ogni tempo) astraendo dalla moralità del comportamento, dal più religioso degli asceti al più incallito dei peccatori.

  

La ragionevolezza della fede

Se compito del cristiano – come è stato autorevolmente indicato dai padri conciliari del Vaticano II – è quello di leggere i «segni dei tempi», di scrutare la storia per carpirne il suggerimento di Dio, allora proprio il primo miracolo del Divino Amore, nonostante la considerevole distanza temporale, ma anzi in un certo senso proprio a motivo della sua collocazione storica, costituisce un «segno» di straordinaria importanza e attualità per i fedeli che si accingono a varcare la soglia del terzo millennio dell’era cristiana.

Pur accaduto oltre 250 anni fa, il miracolo del Divino Amore continua ad essere una provvidenziale provocazione per l’uomo che orgogliosamente si definisce moderno o postmoderno. Accade nel 1740 e si colloca perciò quasi nel bel mezzo di un secolo che risulterà determinante per la formazione della mentalità comune dei secoli successivi, sino ai giorni nostri. Il Settecento è caratterizzato, infatti, dall’affermazione di una cultura, quella «illuminista», fiduciosa esclusivamente nei «lumi della ragione».

L’uomo diventava misura di tutte le cose. La ragione umana, la Dea Ragione, era in grado di spiegare ogni aspetto della realtà senza dovere più ricorrere all’antica «superstizione» cristiana. Dio era eliminato sin dalla radice nella storia umana. L’universo, le stelle, la terra, l’uomo stesso non erano più il frutto della creazione divina, come sino ad allora si era ingenuamente creduto, ma solo del «caso», di semplici e pure «coincidenze». Si esclude per principio, a priori, anche soltanto la «possibilità» che Dio possa esistere e manifestarsi.

Il miracolo del Divino Amore offre perciò all’uomo moderno un forte richiamo alla categoria stessa di «possibilità». Una riscoperta del vero significato di ragione, che per la tradizione cristiana è uno sguardo aperto, una finestra spalancata sulla realtà. Senza paraocchi o pregiudizi.

Albert Einstein, il famoso scienziato, premio Nobel per la fisica, affermava che chi non riconoscesse «l’insondabile mistero, non potrebbe essere neanche uno scienziato»: non potrebbe fondare la categoria della possibilità, fondamentale per ogni seria ricerca.

Non si tratta però soltanto di riconoscere, in astratto, l’esistenza di un Essere superiore. Il nocciolo del problema non è ancora questo. La mentalità dominante arriva oggi a «tollerare» una fede religiosa, purché questa non disturbi.

Il miracolo, e in particolare – per la sua collocazione storica – il miracolo del Divino Amore viene allora ad urtare pesantemente proprio contro un altro postulato su cui si è costruito l’orizzonte spirituale nel corso degli ultimi due secoli: Dio, quand’anche esista, non può agire nel mondo. «Dio, se c’è, non c’entra», sintetizzava p. Cornelio Fabro per significare che Dio viene immaginato dai più come una semplice ininfluente aggiunta a tutte le cose della vita.

Al contrario il miracolo sta ad indicare il segno del Dio presente, che agisce «qui» e «ora». I miracoli, pertanto, non appartengono soltanto all’inizio del fatto cristiano, ma accompagnano la Chiesa durante tutto il suo pellegrinare nella storia. È questo il punto di contrasto fra cristianesimo e modernità. Non tanto la negazione di Dio, quanto della sua presenza operante «qui» e «ora». Il richiamo a questa presenza è anche la lezione che all’uomo d’oggi offre il Santuario del Divino Amore.